Uno dei nostri compaesani, Emilio, ha trascorso tre settimane in Bangladesh durante lo scorso agosto, nell'ambito di un'iniziativa del Centro Missionario Diocesano e della Caritas... Può essere importante diffondere messaggi e testimonianze come questo, per portare l'attenzione sulla dimensione missionaria e sull'effettivo valore dell'operato di tanti missionari e volontari impegnati nel mondo...
 
 Il Centro Missionario Diocesano in collaborazione con la Commissione Giovanile Diocesana e la Caritas organizza ogni anno delle esperienze per i giovani dai 18 ai 30 anni nelle missioni in giro per il mondo. Così gruppi di giovani della nostra Diocesi ogni estate possono vedere com’è la vita del missionario sul campo. Era già qualche anno che volevo provare a vivere anch’io questa esperienza e così quest’anno, a febbraio, ho iniziato a partecipare agli incontri di formazione in vista del viaggio. L’idea di partire al termine di un percorso durante il quale uno si prepara, rende l’esperienza ancora più interessante: perché un conto è andare a vedere qualcosa, un altro andare a vedere una situazione che già ci è stata raccontata. Questi incontri sono stati veramente utili e stimolanti. E lo scopo di questi viaggi? In tanti mi hanno chiesto: “ma cosa andate a fare?”.

“Niente, assolutamente nulla”, la risposta che abbiamo maturato nei mesi di formazione. O meglio andare, vedere per poi tornare e raccontare quello che è stato visto e vissuto, per far conoscere il mondo missionario e sensibilizzare a questa tematica.
E così eccomi qua a raccontare un po’ com’è stata questa esperienza.
C’erano diverse opzioni; la scelta di andare in Bangladesh l’ho maturata per poter vedere l’Asia, questo continente
immenso e completamente diverso dal nostro modo di vivere e pensare.
Cosi il 1 agosto 2007 in compagnia dei miei compagni d’avventura sono partito da Milano alla volta di Dhaka, la capitale del Bangladesh. In tutto eravamo in 6: io, Daniela di Grosio, Deborah di Mandello, Alessandra di Domaso, Alessandro di Marchirolo e don Andrea Della Monica coadiutore ad Albosaggia e nostro accompagnatore.
Dopo un lungo viaggio (14 ore complessive di volo via Londra), arriviamo a destinazione. Usciamo dal fresco dell’aeroporto e l’accoglienza è calda, soffocante è il termine corretto, la maglietta si appiccica alla pelle, l’umidità è pesante. Dopo un breve riposo Padre Paggi, missionario saveriano originario di Sorico, ci porta nella Casa dei Saveriani a Khulna (sud Bangladesh). Il primo impatto con il Bangladesh è un gran casino: lungo le strade tantissimi mezzi malmessi, tanti bus, tanta gente in ogni angolo e gli immancabili risciò; insomma una gran confusione! Restiamo storditi e si fatica a capire dove siamo capitati. Tutti ci guardano, ci scrutano: d'altronde siamo osservati speciali perché qui, siamo noi i diversi.

Stanchi, esausti, stralunati: così iniziamo la nostra “avventura missionaria” in Bangladesh. Padre Paggi è il nostro primo Angelo Custode: è lui che nei primi 10 giorni ci mostra questo paese così lontano dalla nostra cultura, dal nostro pensiero, dal nostro modo di essere. E’ proprio un altro mondo!
Quello che vediamo, quello che ci viene raccontato da chi incontriamo, quello che i missionari ci dicono non fanno che rafforzare la sensazione di essere tanto lontani!
 Padre Paggi tiene per noi delle “lezioni” che ci permettono di capire un po’ quello che vediamo. Così passiamo dalla panoramica sull’Asia, alla cultura del subcontinente indiano, dal sistema delle caste e le sue vittime, alle cause e radici della povertà nel subcontinente indiano, dalla Chiesa ed attività missionaria in questi luoghi, al senso religioso ed alle principali religioni in Bangladesh. Nel frattempo visitiamo tantissimi luoghi, istituzioni, enti e conosciamo sempre più persone. Tutto ciò ci permette di abbozzare un ritratto del paese, il quale prende forma partendo dalla natura: evidente e che condiziona il modo di vivere delle persone. Il paesaggio si presenta come un immensa pianura; guardi avanti e vedi tutto piatto, non l’ombra di una collinetta. Quando in questo ambiente cade tanta pioggia, non qualche settimana ma sei mesi di pioggia tutto si allaga. I campi si trasformano in enormi distese d’acqua nelle quali le strade sono altrettante enormi lingue di terra che rendono possibili gli spostamenti.
Questa è la normalità; ma non sempre è cosi. Quando l’acqua non trova vie di sfogo gli allagamenti diventano alluvioni, portando con se distruzione e rovina. E le persone? Convivono con ciò. Non possono fare altrimenti; si arrangiano come possono. Se sono fortunati il loro villaggio è un’isola in mezzo alle distese d’acqua; se sono sfortunati sono tanti sfollati che trovano riparo lungo le strade o le ferrovie, unici punti più alti del livello zero.
Tutto ciò è incomprensibile per noi: come si può vivere in queste condizioni?
Noi occidentali così abituati a controllare tutto, natura compresa, probabilmente impazziremmo ad affrontare
questa realtà. In questa situazione la gente vive la propria vita. Quando l'acqua inizia a ritirarsi cominciano a piantare il riso, la vera risorsa del paese; di quello non ne manca. Ovunque ce n’é e rappresenta il pasto base dei bengalesi, assieme ad un po' di verdura cotta ed un po' di carne (per chi ne ha!) Il tutto reso ben piccante dall'aggiunta di spezie: ne sanno qualcosa i nostri palati che diventano infuocati alla fine dei pasti!
Indimenticabile l'accoglienza. In ogni luogo che visitiamo tutti ci accolgono con grandi onori: danze, balli,
spettacoli organizzati in nostro onore e l'immancabile lavanda dei piedi.
Quest'ultima ci mette sempre in imbarazzo forse perché non siamo abituati o, forse, perché sappiamo d’essere loro pari e questo gesto sembra renderci superiori. Ma siamo ospiti e non possiamo sottrarci, perché l'ospite è sacro e va accolto con tutti gli onori del caso. Com’è diverso dal nostro occidente: a volte un ospite è perfino un disturbo da noi, qualcosa che prima se ne va e meglio è! Invece lì fanno di tutto per trattenerci il più a lungo
possibile. Abbiamo incontrato anche tante situazioni difficili. Il sistema delle caste è radicato nella loro cultura, fa parte del loro DNA e facciamo fatica a capirlo: siamo abituati a far rispettare in ogni luogo e tempo i nostri diritti, che ci seguono dalla nascita ed è scontato che sia così. Non per loro; è una delle prime volte in cui mi accorgo che tante cose non sono scontate come riteniamo noi, ma vanno conquistate passo dopo passo come dei beni preziosi.
Così vediamo come le donne facciano fatica a vivere in questo mondo, emarginate e tante volte senza possibilità di alzarsi, schiacciate dalla società e relegate a ruolo di comprimari. Le storie che i vari missionari ci raccontano
hanno dell'irreale ai nostri occhi: è impossibile che possa essere vero!
Ed invece è la realtà, cruda e difficile da vivere, impossibile da immaginare. Come pesante è la situazione dei fuori casta, intoccabili e rifiutati da tutti, condannati a vivere un'esistenza ai margini della società. Stessa sorte tocca anche ai popoli tribali; di alcuni di questi è sconosciuta perfino l’esistenza al resto della popolazione.
In tutto ciò una caratteristica comune a tutti: il profondo senso religioso. Si avverte che nelle persone, pur di credo e realtà diverse, c'è un legame stretto tra la loro vita (e cultura) e la religione; s’intrecciano e si contagiano a vicenda nella quotidianità del vivere. Veramente interessante è la possibilità che si è presentata di parlare con esponenti di altre religioni. Cosi con l’ausilio della traduzione di Padre Francesco (Superiore del PIME - Pontificio Istituto Missioni Estere - in Bangladesh) abbiamo fatto dialogo interreligioso con Monaci Indù e dei Mussulmani Sufi. Ascoltando e ponendo un sacco di domande, mille interrogativi si sono aperti nelle nostre menti e ci siamo resi conto di conoscere veramente poco queste religioni e, peggio ancora, abbiamo verificato come
le informazioni che circolano in Italia (ed in occidente) siano lacunose.
 Tutte queste situazioni le ritroviamo anche quando l'11 agosto prendiamo il treno che dal sud ci porta al nord.
Qui conosciamo il secondo Angelo Custode del nostro viaggio Padre Quirico Martinelli, missionario del PIME ed originario di Uggiate. Padre Quirico è il Parroco a Dinajpur, la cittadina che ci ospita. All’interno della parrocchia ci sono varie strutture: collegi per i ragazzi e ragazze che vanno a scuola, il refettorio, la scuola professionale per i ragazzi gestita dal PIME, il campo di calcio.
E poi 60 villaggi nella zona, il più lontano a 60 km, nei quali padre Quirico coadiuvato da catechisti locali e dal diacono, gestisce la vita dell’estesa comunità cristiana. Quanto lavoro, affrontato con serenità e forza morale!
E cosi arriviamo al 23 agosto, l’Italia chiama ed il volo che ci riporta a casa parte. Abbiamo con noi molto di più al ritorno. Un bagaglio frutto di questa esperienza e fatto dei sorrisi dei bambini, dei volti delle persone che abbiamo incontrato, dei sapori e degli odori, dei paesaggi visti, dell’accoglienza festosa che c’è stata regalata.
Insomma, siamo molto più ricchi ora! Qualche settimana è passata ma nonostante ciò facciamo ancora fatica a mettere a fuoco ciò che abbiamo vissuto. E’ vero, tre settimane sono poche per poter capire qualcosa di un mondo cosi lontano e diverso.
Ma sono abbastanza per permettere di capire che non esiste solo il “nostro occidente” e per cercare di creare le basi per vivere al meglio. Perché quando senti parlare missionari che da trent’anni o più, cercano di vivere la loro chiamata al servizio degli altri nel migliore dei modi (e con i pochi mezzi a loro disposizione), fa sentire le nostre lamentele quotidiane delle stonate fuori luogo. Prima ho detto forse: eh sì, perché il difficile viene adesso.
E’ stata una bella esperienza ma se rimane lì resta solamente un bel ”viaggio”: invece dovremmo riuscire a cogliere la fortuna che abbiamo avuto nell’affrontare quest’avventura e cercare di trasformarla in fatti veri e concreti. Facile da dirsi, un po’ meno da farsi. Infatti è un mese che una domanda mi risuona come un tarlo nella testa: noi qua, cosa possiamo fare? Forse possiamo cercare di sensibilizzarci sempre di più al mondo missionario, in modo che le difficoltà di persone tanto lontane diventino anche un po’ nostre, in modo tale che anche il nostro stile di vita possa cambiare in meglio.
I missionari direbbero di vivere il Vangelo: cosi loro riescono a fare quello che fanno!
 
EMILIO 

Questo sito web utilizza i cookie per migliorare la navigazione. Utilizzando il sito si intende accettata la Cookie Policy